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Il fascismo “sostenibile”
Sul romanzo “il Cavallo Rosso” di Eugenio Corti
Umberto De Pace


“Romanzo storico? Personalmente lo definirei storico-politico, tenuto conto dell'approccio militante. La storia, che accompagna le vicissitudini del romanzo, ne risulta alquanto forzata. Suppongo che un lettore con scarse nozioni di storia, come sempre più si sta portando ad essere i nostri giovani, leggendo “Il Cavallo Rosso” si convinca che l'esercito italiano nella seconda guerra mondiale fosse impegnato a liberare la popolazione russa dalla dittatura comunista e che il nazismo in fondo sia stata sì una cosa brutta, ma pur sempre conseguente alla barbarie comunista, mentre il fascismo rimane sullo sfondo dell'intera opera, spesso giustificato o minimizzato.” – sempre partendo da quando affermato nella mia lettera, riporto qui di seguito alcuni stralci del romanzo che, a mio avviso, sono significativi in tal senso. Gli stralci qui riportati si collocano, in gran parte, nel periodo storico della seconda guerra mondiale, e alcuni negli anni del dopoguerra (edizione ARES marzo 2001 pag. 1274).

Da pag. 41-42 (10 giugno 1940 in attesa del discorso di Mussolini da palazzo Venezia sull'entrata in guerra dell'Italia, dalla voce di papà Gerardo)


La dichiarazione di guerra
La dichiarazione di guerra

"È una responsabilità pazzesca questa che i fascisti si assumono, di portare l'Italia in guerra contro la volontà di tutti" pensava camminando. "Perché chi non lo sa che come a Nomana anche nel resto d'Italia nessuno, signore o poveretto, vuole la guerra? La guerra a fianco dei nazisti poi!" Pensò al ministro degli esteri Ciano, ai suoi sforzi - incondizionatamente approvati da tutti – per tenere la nazione fuori del conflitto: "Degli stessi fascisti ce n'è che non vogliono la guerra, e ciononostante..." Gli si affacciavano alla mente, mentre procedeva, gli anni lontani della sua militanza politica nel partito popolare, le sue cocenti delusioni d'allora. "Eccoli i risultati di quelle beghe senza fine, di quelle lotte immonde tra i partiti democratici, che nel 22 hanno condotta la nazione alla paralisi, e a un tale bisogno di ordine, da farla cadere come una mela marcia nelle mani dei fascisti..." Lui e i militanti periferici non avevano potuto fare proprio nulla contro quelle beghe irresponsabili dei vertici.

Da pag. 480 (Su un'imbarcazione di fortuna il cugino Manno sta per abbandonare l'Africa insieme ad altri commilitoni. Siamo nel maggio 1943 )
Gli si affacciarono alla mente certe ore ad Alamein, e quei racconti della vita in trincea nella guerra passata (delle tanto più recenti vicende di Russia non era ancora al corrente); pensò anche a quale dovesse essere la condizione degli ebrei - donne, bambini, uomini - caduti in mano ai nazisti... ("Fortuna che in Italia i fascisti non gli consentono di toccarli..."). "Dunque: se di qua l'inferno c'è, perché dobbiamo escludere che possa esserci anche dì là? Per quale ragione? Con la differenza fondamentale che dì là gli esseri umani non si trovano nel tempo, ma nell'eternità, dunque anche nell'eternità dell'inferno..."

Da pag. 568 (nel lager sovietico, in cui è imprigionato, Michele Tintori incontra un commissario politico italiano)
"Guarda che verme" s'era detto mentre seguitava a rispondere guardingo alle sue domande: "Deve aver abbandonata l'Italia perché odiava il fascismo, e va bene. Una volta in Russia però, dopo avere scoperto che il comunismo è senza confronto peggiore - non foss'altro perché è infinitamente più sanguinario di quella mezza buffonata che è il fascismo - invece di smammare coerentemente anche da qui, guardalo: ha preferito ridursi a fare l'inquisitore dei suoi compatrioti per conto dei comunisti". Non lo sfiorò l'idea che il commissario - nonostante gli aspetti sanguinari del comunismo potesse essere tuttora comunista convinto, e che ritenesse perciò, come in realtà riteneva, di agire per motivi ideali.

Da pag. 607-608 (25 luglio 1943 in casa Riva)
« È caduto il fascismo, sì » disse allora gravemente Gerardo, guardando in viso gli altri due. « Era ora! » Mentre il pensiero di Giulia correva a Manno (forse, grazie a questo fatto, non sarebbe più partito per la Grecia?) il pensiero dei due uomini andò ai tedeschi: in che modo avrebbero reagito? Dei fascisti convennero che non era il caso di preoccuparsi: avevano portata l'Italia alla sconfitta militare, si erano dimostrati incapaci di un qualsiasi serio tentativo per evitarla. Adesso non erano loro che potevano dare preoccupazioni, ma i tedeschi. Quelli osservò Ambrogio « non scherzano mai. Bisognerà vedere come reagiranno.» Gerardo annuì. La musichetta della radio continuava, i tre attesero ancora a lungo, con impazienza, che venissero diffusi ulteriori particolari; infine Gerardo si alzò di nuovo in piedi, andò all'apparecchio e tolse la corrente. «Sìc transit gloria mundi » disse quasi con solennità, lui che non sapeva il latino; poi, in modo più confacente alla sua modesta cultura, espresse lo stesso concetto mediante un proverbio popolare: «Visto? 'La superbia uscì in carrozza, ed a piedi ritornò'.»
A quest'uscita Ambrogio fu sul punto dì sorridere, ma non lo fece: ricordò che il padre in gioventù, quando ancora non era industriale, aveva fondato a Nomana sia la sezione dell'Azione Cattolica che quella del partito popolare; non era uomo che s'esprimesse con le parole, ma con i fatti.
« Adesso che il fascismo non c'è più » chiese il giovane alzandosi a sua volta in piedi « e a parte quello che faranno i tedeschi, come credete che ci organizzeremo? » Ricordava, con perplessità, alcuni episodi del tempo pre-fascista, di cui aveva più volte sentito raccontare certe frasi pronunciate da arruffapopoli paesani sulle piazze prima della sua nascita, così demagogiche e idiote che se ne rideva ancora dopo tanto tempo; e, peggio, non in Brianza ma nel resto d'Italia, casi di prepotenza rossa per niente inferiore a quella nera: insulti ai preti e agli ufficiali, disordini, treni fermati e non lasciati ripartire solo perché c'era un prete sopra.
« Beh, non appena possibile si ricostituiranno senza dubbio i vari partiti » gli rispose Gerardo: « ci organizzeremo dì nuovo in modo democratico, vedrai. » Sembrava fiducioso in una normale ripresa politica; al pari di lui sembrava fiduciosa Giulia, né l'uno né l'altra si prospettavano gli eccessi cui era corsa la mente del giovane.
"Come che sia" concluse questi tra sé "i guai politici per il momento sono niente, confronto al pericolo rappresentato dai tedeschi".

Da pag. 690-691 (Ospedale militare sul lago Maggiore dove viene ricoverato nuovamente Ambrogio, gravemente malato. Decio è un giovane ufficiale anch'egli ricoverato. 1943 dopo l'8 settembre 1943)
I fascisti alla madre ispiravano a quel tempo sopratutto pena. « Non so se altrove - a Roma o nelle altre grandi città per esempio - le cose vadano diversamente. Ma da noi nel milanese, e del resto anche qui a Stresa, è solo perché costretti che i fascisti si ripresentano. Preferirebbero starsene a casa, si rendono benissimo conto che la guerra è perduta, figurati. » Citava qualche esempio (riferitole dal marito, oppure da conoscenti d'albergo: le sue limitate fonti d'informazione) di fascisti che per non farsi trovare erano ricorsi ad espedienti.
« Sì, Gli stessi gerarchi e perfino Mussolini » conveniva il tenente Decio « sono tornati sulla scena malvolentieri, proprio perché tiratici per i capelli dai tedeschi. Questa è anche la mia impressione. »
« Per i capelli Mussolini? » non mancò, malgrado tutto, di scherzare Ambrogio: « Perché? Gli sono ricresciuti? »
« Beh, né lui né gli altri sono tornati in scena volentieri. Tranne i soliti estremisti, si capisce, i vari Farinacci e compagnia, ma quanti sono? »
« Mi fanno pena » diceva la madre: « mi fanno tutti pena, sia quelli importanti che i piccoli. Chi di loro ha accettato d'aderire alla repubblica chiama poi anche gli altri e gli dice: 'Quando le cose andavano bene tu eri iscritto, eri fascista. Adesso che le cose vanno male vorresti nasconderti?' Io ho perfino l'impressione che siano i più galantuomini ad accettare di darsi da fare ancora. Non sicuramente gli opportunisti. »
« Questo però era vero sopratutto al principio » le faceva osservare Decio: « in principio accadeva così. Ma da quando, in novembre, sono usciti quei bandi di chiamata alle armi che hanno fatto fuggire tanti giovani in montagna, gli animi stanno invelenendosi: sono cominciate le vendette a catena tra i fascisti e i partigiani, ecco il guaio. Io non so proprio cosa succederà in futuro se gli 'alleati' non si spicciano a venire avanti. »

Da pag.706 (nel lager sovietico 74 di Oranchi, i pensieri di Michele Tintori dopo aver parlato con un professore russo internato )
Ancora una volta gli si prospettava anzitutto l'incredibile somma di sofferenze a cui da anni, e forse, in un certo senso, da secoli, era sottoposto il popolo russo. Quello che non riusciva tuttavia a spiegarsi era perché i comunisti, al potere ormai da un quarto di secolo, seguitassero a uccidere e a deportare la gente su una simile scala di milioni. Gli veniva spontaneo il confronto col comportamento dei fascisti: la cosiddetta rivoluzione fascista – anche ad includervi tutte le vittime dei disordini che l'avevano preceduta, e delle spedizioni punitive che l'avevano seguita - era costata soltanto poche centinaia di morti; quanto ai confinati (versione italiana dei deportati russi) non dovevano essere molti di più. Ciò indicava che per conservare il potere non ne occorrevano di più. Perché dunque i comunisti seguitavano a uccidere e a deportare (perfino a deportare i loro stessi compagni) su così incredibile scala? A cosa mai gli serviva?
Che gente disgraziata, ad ogni modo, i russi! Da una parte il comunismo, dall'altra un esercito agguerrito come quello tedesco che – se anche ormai si stava ritirando - faceva loro pagare ogni passo avanti con un numero terribilmente elevato di morti. Vero che i russi sembravano in complesso accettare ogni cosa con fatalismo. Specie i contadini erano dotati di una capacità di sopportazione assolutamente incredibile (gli tornò in mente suor Natalia...) Ma erano pur sempre esseri umani, fatti di carne e nervi: la somma delle loro sofferenze era tale che al giovane riusciva quasi impossibile prospettarsela.

Da pag.789 (Pino è il figlio terzogenito dei Riva. Studente di medicina si unirà alle formazioni partigiane del capitano Beltrami in Val d'Ossola. Il Praga nel romanzo fa la parte del fascista “cattivo”. Dalla Brianza il Praga si spostò a Milano, nella polizia, per poi dirigere una squadra di tortura)
Il giorno dell'espatrio di Pino fu a Milano per il Praga di gran 'lavoro': la guerra civile si era infatti incrementata anche nelle città. Dove però essa mancava della componente romantica che in qualche modo aveva in montagna: nelle città si riduceva a un'atroce successione di assassinî e contro-assassinî. Da una parte agguati a fascisti e tedeschi, o a loro collaboratori, o presunti tali, che venivano spesso freddati a bruciapelo nelle strade; a queste uccisioni si rispondeva, sopratutto da parte tedesca, con fucilazioni non meno spietate di prigionieri ed ostaggi. Appunto a ciò miravano gli autori degli agguati, i quali volevano che i fucilatori diventassero sempre più odiosi alla popolazione. Le torture da parte delle 'polizie speciali ' - che i fascisti più responsabili, bisogna pur dirlo, e il ministero della giustizia dì Salò in particolare, non avrebbero voluto - s'inserivano in tale scellerato contesto, e venivano messe avanti dai partigiani a ulteriore giustificazione del proprio modo d'agire.

da pag.795
S'era fatto ancora una volta silenzio, non si udiva che la musichetta della radio. Il Praga adesso non poteva più distogliere la mente dall'ispettore del ministero. Il fatto è che questi discorsi da bestie gli avevano riaperta dentro la ferita. Il comandante la sezione speciale, pur senza accogliere il suo piano, gli aveva risposto con ogni riguardo, sapendo con chi aveva a che fare. L'ispettore del ministero invece, cui il pro memoria col piano era capitato in mano per caso, era addirittura uscito dai gangheri e aveva voluto parlare con lui, l'autore del progetto. Subito alle sue prime parole d'argomentazione si era messo a gridare: « Noi non siamo dei barbari, non siamo come loro » aveva affermato con voce alterata (alludeva, il porco, non solo ai russi, ma anche ai camerati tedeschi): «La volete capire? Qui dentro gli arbitrî devono cessare, e anche le torture vanno contenute nel minimo indispensabile, solo il minimo e basta. Perché la tortura non rientra nello stile fascista, è chiaro? » Più o meno così aveva detto; l'aveva in sostanza chiamato barbaro, umiliato.
Da tempo non succedeva al Praga d'essere umiliato.

da pag.832 (Pierello è uno degli amici di Ambrogio Riva partito per la guerra. All'armistizio viene deportato dai tedeschi e finisce nel settore nord-orientale della Germania. Travolto dall'avanzata sovietica vive la drammatica ritirata del popolo tedesco)
I profughi intanto cominciavano a rifluire dalla laguna: i più tornavano in città, ma molti s'accampavano sotto il primo riparo che gli capitava; l'anziano sottufficiale tedesco comandante il deposito fece aprire per loro due capannoni vuoti, ed essi vi si stiparono in breve all'inverosimile, mentre non pochi altri s'accampavano all'esterno, nei carri. Molti raccolsero sterpi e pezzi di legno e accesero piccoli fuochi, su cui cominciarono a cuocere gli alimenti, adoperandosi anche perché i bambini vi si scaldassero intorno.
Che situazione, pensava Pierello osservandoli dal trattore: in che stato s'erano ridotti, loro che pure erano gente così in gamba! D'altra parte il castigo i tedeschi se l'erano voluto, al riguardo non esistevano dubbi. Perché poi gente che per tanti aspetti era in gamba come nessun'altra, avesse scelto di fare tante prepotenze e mascalzonate, era una cosa che lui - per quanto ci pensasse — non riusciva a spiegarsela. Mah!
(Noi non troviamo gratuita la sua perplessità. Se è vero che non esistono popoli superiori, né inferiori, agli altri, è anche vero che ogni popolo ha un proprio momento di particolare efficacia, in cui è chiamato a costruire con grandezza non solo per sé ma per tutti, e secondo ogni verosimiglianza il nostro avrebbe dovuto essere il secolo dei tedeschi. Li abbiamo visti al culmine delle possibilità realizzatrici, come devono essere stati gli elleni nel loro tempo più felice, quando diedero alla civiltà quell'incommensurabile apporto, come i romani alcuni secoli più tardi, e gli italiani nel medio evo, e gli spagnoli nel cinquecento, quando furono tali da arrestare nel vecchio mondo la minaccia dell'Islam e in pari tempo da colonizzare il nuovo. Come i francesi nel settecento, come infine nell'ottocento gli inglesi, quando con la macchina e l'industria moderna hanno creato nuove, impensate possibilità di vita per l'umanità intera. Disgraziatamente il loro grande momento i tedeschi l'hanno sciupato al seguito di falsi maestri, in un'impresa del tutto contro Dio, escludendosi con ciò dalla possibilità dì costruire alcunché. E non basta: lo sperpero delle loro immense energie - di cui gli ultimi brandelli avrebbero portato l'uomo sulla luna - e la perdita d'un numero cosi spaventoso di loro, uomini dotati di fermezza oggi introvabile altrove, avrebbero negli anni a venire rappresentato per l'umanità intera un impoverimento forse irreparabile.)

da pag.1088-1089 (Michele Tintori nel corso di alcune riflessioni su Togliatti, la Russia etc… Siamo nel corso della campagna elettorale del 1948)
Nella guerra appena finita i morti italiani non erano stati — relativamente parlando - molti: secondo gli ultimi computi da quattro a cinquecentomila, inclusi i civili vittime dei bombardamenti e i caduti nella lotta tra partigiani e fascisti. Ragionando a freddo non molti, se confrontati con le ecatombi di altri paesi (la Russia e la Germania in particolare). Si poteva pertanto presumere che - nei misteriosi equilibri della 'società dei santi' – da noi si fosse fatto sentire in modo massiccio il peso appunto di tutti i nostri santi, dall'interminabile splendida schiera che va da Francesco, Tomaso, Caterina, e gli altri del medio evo (chissà come Togliatti li giudicava) giù giù fino ai più recenti: a don Bosco, al Cottolengo, a don Orione ("don Orione, figlio d'uno scalpellino...") e al vivente padre Pio. Dovevano inoltre avere fatto sentire il loro peso anche i santi per così dire impropri ("ci esprimiamo un po' a spanne, eh Michele?") cioè tutta la brava gente di ieri e di oggi, come don Mario, e Luca, e il Tito Valli, e il signor Gerardo che si dava senza tregua da fare per creare nuovi posti di lavoro, e quegli operai riuniti là nella bottega dell'orologiaio trasformata in centrale operativa (anche se di questo c'era un po' da ridere), e tutti gli innumerevoli buoni padri e madri di famiglia, e le monache di clausura e i frati contemplativi, i quali spendono ogni loro giorno ed ora proprio in questo: nel cercar .d'espiare davanti a Dio, con le orazioni e la penitenza, anche i peccati degli altri. Insomma il punto era di sapere se, nell'equilibrio della 'società dei santi', i meriti dì tutti costoro sarebbero riusciti ancora una volta a compensare le colpe complessive. "Vent'anni fa, dopo l'altra guerra, l'insurrezione rossa in Italia si è potuta evitare: ce la faremo anche adesso che non c'è più il fascismo?" O invece stavolta sarebbe iniziato anche per l'Italia un periodo d'abbandono da parte di Dio, la condizione terrificante di cui lui era stato testimone là all'est? ''

A distanza di anni possiamo presumere che il meccanismo salvifico della 'società dei santi' stesse in quel tempo effettivamente esplicando la sua azione. Possiamo presumere che il nuovo grande
bagno di sangue non abbia avuto luogo perché i meriti hanno pesato più dei demeriti nella società italiana d'allora. La quale era sì - per quanto a noi è dato vedere - gravemente imperfetta, ma tutto sommato pulita, e non ancora 'affrancata da Dio' secondo gli schemi laicisti, né infognata nei peccati della carne, come sarebbe stata in seguito.
Siamo - è chiaro - nel campo delle intuizioni, e una realtà finché è solo intuita, rimane indimostrata: tuttavia noi riteniamo che le cose siano andate appunto così. Attraverso quale procedimento storico? Cioè - scomparso il fascismo - attraverso quali altre vie di fatto?
Noi riteniamo proprio attraverso le scelte e l'azione - in sé tutt'altro che santa, ma risultata poi, nei disegni della Provvidenza, salvifica - del segretario del partito comunista Togliatti. Il quale in quei giorni, a onta della sua famigliarità col medio evo, era senza dubbio assai lontano dal rendersene conto. (In conclusione Togliatti 'uomo della Provvidenza', allo stesso modo dì Mussolini prima di lui? È quel che pensiamo.)

“Da questo punto di vista è comunque interessante il contributo di Corti, in quanto descrive molto bene quella che definirei “incoscienza” di uno spaccato, sicuramente maggioritario, di società brianzola – ma non solo – verso la dittatura fascista nel nostro paese.”

alla prossima

Umberto De Pace

Gli articoli precedenti:
Il Cavallo Rosso - Il romanzo di Eugenio Corti
Il militante manicheo - Sul romanzo di Eugenio Corti



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  16 ottobre 2010